
di Giorgio Manganelli
Credo che occorra un certo malessere per discorrere in modo non affatto improprio di Ennio Flaiano. Un malessere intricato, non riluttante ad un raro riso, ma soprattutto consapevole di sé, della sconfitta di cui si nutre, capace di ospitare insieme una qualche non nobile pietà e una decorosa malignità. Deve essere, codesto malessere, aneddotico, una sorta di didascalia in calce ad un evento frettoloso dell’esistenza; ma insieme abbastanza concettoso da non dimenticare che quell’aneddoto è pur sempre una tappa, anche se risibile, dell’eternità; o piuttosto, che è esemplificazione di quella vocazionale tessitura di errori che trama l’esistere. Ecco: ho sperimentato un malessere di codesto genere qualche giorno fa, su di un autobus romano; una di quelle grosse e goffe e inaccessibili macchine o macchinazioni pubbliche, che trasportano i corpi grevi dei romani lungo la Nomentana (mi accorgo di tener d’occhio un catalogo flaianeo di luoghi memorabili). La macchina sobbalza, trabalza, si scuote e sussulta, e sempre un poco inclina a destra e poi a sinistra, e da l’immagine di un mondo profondamente precario. Sono accanto alla porta, che mi sembra alludere ad una possibile fuga dalla precarietà, e non lontano da me vedo una anziana signora che lentamente si alza, e certo si dispone alla discesa, non meno elaborata e grave di destino della ascesa. La signora ha vissuto, forse umilmente, ma nessuna umiltà esenta dalle piaghe dell’esistere, e il suo corpo si muove lento, pesante, inesatto; la sua prima preoccupazione non è quella di levarsi in piedi per disporsi a scendere; prima deve congedarsi da due signore amiche e parimente anziane, che stanno sedute di fronte; o meglio, una le sta proprio di fronte, e l’altra di lato, sulla destra. La signora che sta levandosi in piedi ha una idea esatta della cerimonia da compiere: deve baciare su entrambe le guance le due amiche. Ma la macchina corre instabile, tremula, ansante, e la signora anziana faticosamente esegue la cerimonia sull’amica dirimpettaia: un bacio a sinistra, un bacio a destra, con qualche scompiglio di capelli e impaccio di borsette; quando poi deve procedere a cerimoniare l’amica di destra, l’operazione da macchinosa si fa temeraria; i baci arrivano dove possono, ma sempre han da esser due, giacché anche questa signora, sebbene anziana, dispone di due guance. I baci vanno un poco a caso, e la mole della signora anziana oscilla tra l’una e l’altra amica, certo colme di affettuosa apprensione. E in quel momento mi scopro dentro un rapido e sommesso riso, e aggiungo mentalmente: “Questo è puro Flaiano.” Poi, naturalmente, mi chiedo perché mai abbia pensato a Flaiano. Appunto, il malessere. Ho riso, appunto. Ma dire che fosse un riso ispirato dall’allegria, proprio non direi. Certo, era – come dire? ridicola? risibile? ridevole? irrisoria? – aveva a che fare con un certo riso il gesto della signora anziana. Era goffa. Era imprecisa. Era accanita nell’adempimento di un dovere cerimoniale cui non osava sottrarsi. Aveva quattro baci di congedo da dare a due amiche, e quelli voleva dare ad ogni costo. L’accanimento si mescolava alla futilità, e questa alla solennità. Nel malessere che ho detto intricato entravano via via molti indizi: qualcosa di irrisorio e qualcosa di ridicolo, il tema della cerimonia ma anche della sua caricatura, il tema della vecchiaia e dell’ostinazione, perché certamente non si può dare vecchiaia senza ostinazione, forse accanimento – ma l’accanimento non è elegante; appunto, un che di sgraziato ma anche di coraggioso; ma infine un sentore di inanità; una recita puntigliosa ma tentata a braccio; una allusione alla scansione ormai approssimativa della vita e un presentimento della morte. Malessere fondo, ma non senza l’intimo cigolio d’un riso. È proprio, quel “cigolio”? In realtà, il meccanico gemere della macchina assomiglia al mio riso segreto.
Un aneddoto, certo; ma un aneddoto può essere raccontato perché irrilevante, o perché è uno dei modi dell’eternità di degradarsi. La gloria frettolosa e schiva del deforme. E qui nuovamente allaccio il minuscolo aneddoto a Flaiano. Flaiano era scrittore estremamente “spiritoso”. E tuttavia è impossibile leggerlo come tale, e goderne con svelta compiacenza. Nella parola “spiritoso” mi interessa la presenza furbamente clandestina dello “spirito”; se un poco lo sollecito, ecco che accanto a “spiritoso” si coagula la parola “spirituale”. Se ripenso all’aneddoto imperniato sull’accanimento cerimoniale della signora anziana, credo di riconoscere la sovrapposizione di spirituale e spiritoso; credo anche di capire che queste due parole sono coinvolte in una reciproca complicità, e che ciò che mi muove al riso non agirebbe se non fosse oscuramente eccitato, accelerato da un elemento tragicamente spirituale. Attraversa il gesto di quella signora una profonda, dolorosa e irrisoria contraddizione, che mescola la goffaggine dell’età e la volontà cerimoniale. Diciamo che costei s’è impegnata in un compito “impossibile”, e ciò è ridicolo e inquietante. Ecco una preziosa e squisita definizione dello “spirito” (quale?) data da Flaiano: “Dicendo: Date e vi sarà dato, Gesù ipotizza un mondo dove le azioni sono contrarie alle norme del nostro mondo – e fa una battuta di spirito.” (Il corsivo è di Flaiano.) Dunque la battuta di spirito – oserei emendare “dello spirito” – allude ad un impossibile, ad un errore che è “giusto”, giacché si inserisce nel mondo degli errori erronei. Flaiano aveva caro questo tema dell’errore, e nell’esaurimento dei possibili errori vedeva l’esaurimento delle possibilità vitali.
La contraddizione è una regola interpretativa che Flaiano usa costantemente, con aduggiata coerenza. Così descrive la propria vita di uomo d’umore: “Grosse contraddizioni nella mia vita non ce ne sono, direi che le ho mancate tutte per difetto di immaginazione… nel corso di una sola giornata posso contraddirmi, come il savio, settanta volte… Cambio di umore e di idee seguendo il corso del sole. Al mattino, leggendo i giornali, tutto mi è di peso: la commozione delle classi medie,
l’insolenza degli estremisti, la beatitudine dei governanti. Col trascorrere delle ore mi sento più portato a comprendere gli altri punti di vista, persino a tollerare e a sorridere…” “Le contraddizioni di rivoluzione durano dalla nascita ma comincio a vederne la fine. Sono anch’esse mediocri.” E da una succinta nota autobiografica estraggo, incantato e turbato, la frase brevissima: “A sette anni sapevo fare un telegramma.” L’allusione alle tragedie e alle solennità dei grandi non potrebbe essere più precisa quanto reticente; al tempo di Flaiano bambino, i telegrammi erano messaggi minatori. Basta tanto per aver notizia di una infanzia onerosa, difficile. Ma non è un altro caso in cui vediamo sovrapporsi “spirituale” e “spiritoso”? Flaiano dedica alcune righe piene di pudore alla “mortificazione del successo”, che conclude con un bon mot di rara tristezza, e tuttavia bon mot: “Oggi il successo colpisce soprattutto gli uomini migliori.” Dove la frase fa perno su quel rapido e innocente “colpisce”. Colpito da preinfarto, superatolo, Flaiano annota: “La morte ha la faccia di certe signore che telefonano al bar con un gettone: e a un certo momento, senza smettere di telefonare, vi fanno un cenno di saluto e di sorpresa.” È una immagine di straordinaria grazia e implicita terribilità, un caso in cui lo spirituale soverchia ma non erade lo spiritoso; e la squisitezza del gioco sta nella leggerezza di quella misteriosa figura di donna che telefona “con un gettone” – qualcosa di effimero, precario – e nella lieve tacita confidenza di quel “saluto” che irreparabilmente sorprende. Questo frammento è preceduto da una nota: “10 maggio – Sono passati 68 giorni e so-
no ancora vivo, è un bel successo. Tutto dovrà cambiare.”
Le ultime tre parole “tutto dovrà cambiare” indicano uno dei temi più inquietanti, e più ostinati, qualcosa che attraversa via via pagine e proposizioni; secondo questo tema, l’essenza della nostra tragedia, e insieme della sua irrilevanza, sta nel fatto di essere in una condizione che precede qualcosa, qualcosa che per dignità di senso, per pregnanza, per gravità generosa toglierà ogni irrilevanza; ma finché codesto cambiamento non sarà stato operato, noi saremo vincolati alla pena indicibile della futilità, della “tragedia ridicola”. Credo che gran parte dell’opera di Flaiano sia da leggere semplicemente come un discorso sulla irrilevanza di ciò che accade “prima”, sebbene non sia possibile in alcun modo dire “prima” di che; e sebbene ciò che accade potrebbe in altra retorica esser detto “noi”. E tuttavia anche questo è da chiarire, che Flaiano non è un profeta in attesa del cambiamento – lo spirituale non lede lo spiritoso – ma appunto un uomo del “noi”, destinato a vivere in un mondo di “errori”, e di contraddizioni, si noti, “mediocri”, un luogo in cui l’assenza di un evento rivelatore è connaturale, necessaria, e non del tutto deplorevole, giacché appunto la futilità garantisce lo spazio all’aneddoto, alla sua risibile grandezza.
Credo che sia chiaro come la definizione ormai canonica di Flaiano come scrittore “satirico” sia talmente da interpretare, da essere pericolosamente inutile. La capacità di Flaiano di oscillare fino sull’orlo del tragico e di distrarsene in tempo per conseguire il rapido lembo del ridicolo – o del risibile – lo propone come uno scrittore di straordinaria complessità, tanto più inafferrabile perché non è possibile chiuderlo nei limiti di uno scrittore di genere: sebbene abbia scritto romanzi non è romanziere, non è drammaturgo, non è giornalista, e tuttavia è stato tutte queste cose e altre ancora; e dunque in che modo lo definiremo? Forse appunto questo libretto che raccoglie aforismi, sentenze, e appunti di memorie e annotazioni di possibili racconti o sceneggiature cinematografiche può aiutarci a decifrarne la loquacità occulta. (Aveva scritto: “Scrivere è diventato inutile, a meno che non si scriva indecifrabilmente.”) Citerò ancora:
18 marzo 1969
“Ho un mal di testa, mi sento stanchissima, come se mi avessero bastonata.” “Vada dal dottore.” “Ci sono stata, mi ha dato le medicine, ma non è cosa della mutua, questo è malocchio. Mi hanno gettato il malocchio.” Va al telefono. “Pronto, sei tu, Peppina? guarda devi vedere se mi hanno gettato il malocchio. Stai facendo il sugo? Be’, tanto che ci metti. Posso aspettare. Hai messo l’acqua nel piatto fondo? E le gocce d’olio? Come si comporta l’olio? Dici che ho ragione? Allora me lo levi? Coraggio, dimmi le parole (Ascolta) Grazie.” Un quarto d’ora dopo: “Era malocchio, è andato via, mo’ sto bene.” Questo a Roma, 20 ottobre, a casa mia.
L’annotazione di Flaiano appartiene a vari generi: si tratta di un aneddoto, della trascrizione di un “errore”, è una pagina di diario, è la rapida cattura di un suggerimento di racconto, è una testimonianza attenta soprattutto alla “irrilevanza”, a ciò che la rende rilevante solo nel discorso degli errori; è un omaggio non distratto alla pertinenza vitale dell’errore, alla acre volontà di esistere che consente i “cari inganni”, la cui qualità affettuosa non è smentita dalla gentile, ostinata stoltezza. Ma se rileggiamo le poche righe dell’aneddoto domestico, non possiamo non notare la diligenza dell’amanuense che trascrive un discorso, una chiacchiera che presuppone un dirimpettaio invisibile, insomma è il ritaglio di una metà di un dialogo. Dunque, ci troviamo tra le mani un frammento teatrale esiguo, ma esauriente. Se dovessi fornire una didascalia che indichi il genere, direi: idillio negativo. Flaiano, scrittore intriso di negativo, ebbe una predilezione per i frammenti, le trascrizioni discontinue, gli abbozzi, gli appunti, i promemoria; materiali che possono diventare qualsiasi forma, adattarsi, come animali intristiti, a qualsiasi cunicolo mentale. L’idillio, nel senso originario di un Eroda, momento letterario rapido, esile, completo, è forse il modello mentale più costante nell’opera di Flaiano. In questo senso è un “idillio negativo” l’apparizione della morte come signora che è impegnata in una telefonata a gettone, o questo cane che tien dietro a Flaiano che ha appena vinto un premio letterario (“un malinteso”, naturalmente). “Tornai a casa solo. Ricordo che un cane randagio si intestò a seguirmi fin sulle sca- le e volle entrare. Come rifiutarsi? Gli preparai una zuppa di latte e lo feci dormire sullo scendiletto: la mattina dopo andò via.” L’idillio è un genere che regge il proprio periglioso equilibrio solo grazie al negativo: guai se quel cane, professionalmente randagio, non fosse andato via.
Prendiamo un altro “idillio negativo”, tanto labile da essere riluttante a qualsiasi lettura non istantanea: “Montecatini, 21 ottobre. La pioggia torrenziale della notte, un velario, il rumore di tamburo sulle larghe foglie di *). Attesa di una catastrofe che ci lascia indifferenti.” La rapidità e insieme la densità delle immagini si affida a un discorso distratto, sottovoce, casuale, qualcosa che avrebbe l’inconsistenza di una didascalia, non fosse per l’accenno finale alla “catastrofe”, nella quale è agevole riconoscere quel “momento ulteriore” cui
in altri contesti potrebbe spettare il compito di dissipare il labirinto degli errori, di dar senso alla neghittosa insensatezza dell’esistere. L’impossibilità, la repugnanza storica di tanto evento ad accadere lo trasforma in catastrofe, qualcosa che possiede troppo senso, troppa chiarezza perché ci possa pervenire se non come disfatta; e a tal punto inadoperabile da lasciarci indifferenti. Ho prolungato fino alla goffaggine la chiosa alla didascalia, perché mi interessava indicare la qualità aleatoria della annotazione di Flaiano, il proporsi come gioco, dispositivo combinatorio, indovinello allusivo al negativo, alla mancanza di senso (anche l’aneddoto del mal di testa era un indovinello privo di soluzione).
Indovinello, idillio, aneddoto: forse ci avviciniamo al centro dell’invenzione di Flaiano. Potrei aggiungere un termine: didascalia. Flaiano dà sempre l’impressione di annotare particolari irrilevanti da porre come indicazioni didascaliche nel corpo di una orrenda e catastrofica tragedia, che tuttavia egli tace, o forse ignora, o di cui ha dimenticato la vicenda. Concentrare la propria attenzione sulle didascalie, magari su certi minori doveri registici, un frastuono di tamburi, un petardo che sta per una grande battaglia, un effetto di luce, tutto questo nella perfetta ma rigorosamente sottaciuta consapevolezza che in verità si tratta di una tragedia di una rovinosa tetraggine, un impasto di omicidio e di noia, tutto ciò mi pare molto flaianeo. È, questa, satira? Ne dubito. È una stupenda invenzione intellettuale: in un momento in cui la coscienza tragica è stranamente impedita, e dunque la tragedia imperversa affatto cruda e incondita, essendole negata la simbolica liberazione della letteratura, in quel momento Flaiano con occhio delicato e preciso si occupa di particolari tecnici di una suprema irrilevanza, perché la tragedia preme all’esterno della letteratura, ma non vi accede mai – i tentativi di penetrarvi sono in genere estremamente goffi. Flaiano aveva scritto che “per vivere bene non bisogna essere contemporanei”: e il suo modo di non esser tale era appunto quello di ritenere della tragedia di un secolo il cruccio di un attimo, consapevole come era che un attimo di noia è grande quanto l’universo. Sfogliando questo volume in qualche modo sigillo di una lunga storia di scrittore, pare di riconoscerlo esempio di un genere che propriamente genere non è: è uno zibaldone. Ma che cosa è uno zibaldone? Potrei tentare di descriverlo a questo modo, giacché definirlo non è possibile: una raccolta di segmenti di un discorso ininterrotto – i segmenti sono arbitrari, o motivati da motivi calcolatamente futili, il foglio è finito, la matita consumata, un errore di battitura, una distrazione. Nello zibaldone la musa è la distrazione, intesa come concentrazione frammentata e discontinua, un discorrere erratico, per proposizioni sensate solo labilmente. Lo zibaldone non è né può essere un discorso unitario, una descrizione del mondo, in fondo non è un libro: ma, nei confronti del libro, che è?
Forse possiamo osare una ulteriore approssimazione. Se esaminiamo l’opera di Flaiano e la riportiamo a questa raccolta, questo zibaldone, ci accorgiamo di una qualità, una funzione precisa della mista e anche casuale raccolta: essa racchiude frammenti seminali che potranno diventare qualsiasi cosa, o nulla; qui sono larve, ombre disponibili a qualsiasi nascita: racconto, meditazione, diario; ma è vero anche il contrario: che tutto ciò che Flaiano scriveva era imperfettamente se stesso. Un racconto non era mai un vero racconto, né un diario aveva la malinconica regolarità cronologica del diario; diciamo che tutto era “didascalia” o “idillio negativo”? Preferirei riportare lo scrivere di Flaiano alla condizione dello zibaldone, una sorta di “scrivere continuo” che talora, ecco, fa un gnocco (un’espressione che non mi è congeniale, ma forse flaianea) e quel grumo è tale e quale un racconto, una divagazione, una chiacchierata; ma in breve il racconto o che altro sia si scioglie e ritorna quello che deve essere, una pagina di zibaldone, magari una pagina stranamente coerente, più coerente del ragionevole; ma mentre leggevamo il racconto, non ci accorgevamo forse di quanto fosse instabile, distratto, svagato? Se lo scrivere è l’unico genere che possa includere e descrivere l’opera di Flaiano, allora lo zibaldone è l’esempio perfetto di questo “lavoro” e in realtà in tutta la sua vita Flaiano scrisse sempre e solo pagine dello zibaldone. Non sarà un caso che codesto nome abbia per un lettore un inevitabile suono leopardiano. E non di rado il suono leopardiano è nitido e sveltamente angoscioso: “La storia di quei tali che stanno precipitando sorretti da una speranza.” “Il parroco viene a benedire la casa e mentre asperge mura e pavimenti dice a Rosetta se le interessa ancora quel terreno che aveva visto l’anno scorso, eccetera.” In questa didascalia-aneddoto-idillio mi affascina il campo lungo di quell’eccetera. Che è anche una indicazione di suono. Nelle ultime righe la parola “suono” è tornata parecchie volte; suppongo che non sia un caso. Leggendo, come mi è accaduto in questi giorni, quasi tutti i libri di Flaiano, resta nella mente, nell’orecchio, il suono particolare di quella prosa, un suono che assomiglia al rumore della pioggia, che certo ha un che di piovorno, una prosa attraversata da un ininterrotto brusio. La prosa di Flaiano sembra scivolare sui segni di interpunzione, che tendono al livello di una frettolosa virgola, eppure non è una prosa svelta, precipitosa, anzi è un discorrere non lento ma peritoso, una mescolanza di patema, di noia, di furbizia. Certe pagine di diario sulla vita di Via Veneto, su Cardarelli, certi racconti che sembrano cominciare a mezz’aria, e finire allo stesso modo, come se il raccontatore si fosse dimenticato l’inizio e il finale fosse irrilevante, sono esempi di una prosa che affascina proprio grazie alla sua apparente casualità, quella punta di accidia che Flaiano usa come angostura. Oh certamente, talora accade di ridere, ma si tratta sempre del riso che emerge da una continua, ostinata inquietudine. Ecco, volevo scrivere: “una grande inquietudine”, ma sarebbe stato un errore. Una “grande inquietudine” è la tragedia, quella che Flaiano evita, perché non è di buon gusto aver a che fare con chiassosi delitti e macchinose interpretazioni del mondo, delitti inclusi. Flaiano è attento – come può essere attento un orafo, un miniaturista, un perfetto amanuense – alla piccola inquietudine, quel dolore portatile che può accompagnare una vita, che non è incompatibile col riso, con la noia, e con la morte.
Vorrei concludere con un omaggio ludico ad uno scrittore che costantemente allude al gioco, nel momento stesso in cui allude alla catastrofe (ancora, la signora morte nella cabina telefonica). “C’è un sacco di gente che vive e lavora a Macerata. (L’essenza di Cechov.)” Questo è un esempio perfetto di didascalia irrilevante, resa ancor più pertinente dal riferimento a Cechov, uno scrittore ludico-tragico, e uno scrittore di didascalie coscienzioso e mitemente terroristico. “I topi abbandonano l’aereo che cade?” ha la grazia disorientante di una sentenza orientale, e insieme descrive appunto una “catastrofe irrilevante” o forse dovrei dire “indifferente”; Ma se si maneggiano quelle poche parole, ci si avvede quale sommessa presenza di angoscia esse custodiscano: i topi, che per altro non ci sono, sono i soli a sapere che l’aereo cadrà; ma, non essendo sull’aereo, non possono abbandonarlo, e in tal modo annunciare la catastrofe; e dove potrebbero andare questi topi inesistenti? Topi volanti? Pipistrelli? L’aereo vola dentro una grotta, di notte, a lumi spenti?
C’è un Flaiano “indecifrabile” che elude qualsiasi gioco, come un ragazzo imbronciato: è difficile chiosare due lapidi burlescamente laconiche – due lapidi ridevoli – come quelle che seguono:
Tuttavia è innegabile
Un vero e proprio
Due didascalie insondabili, che non richiedono neppure la tragedia per essere utilizzate, ma verosimilmente un frammento un po’ sciocco di vita, e tuttavia intollerabile:
“La tua ansia di evadere, caro amico, non è suggerita dalle pareti nude e malsane del carcere, ma dagli affreschi che ne decorano il soffitto, dalle inferriate del XVI secolo, dai damaschi e dai tappeti, dai bibelots e dal mobilio di qualità, dallo sprofondare dei divani, e soprattutto dalle facce degli altri carcerati, dalla loro attività artistica e culturale, e dai loro inesauribili divertimenti.”
GIORGIO MANGANELLI