L’ultima intervista a Ennio Flaiano
(Trascrizione dell’ultima intervista di Flaiano rilasciata a Giulio Villa Santa nel 1972 per la Radio della Svizzera Italiana).
Flaiano, mi sembra che lei abbia sempre voluto dimostrare che nulla oggi merita più di essere preso sul serio. Lei scioglie qualunque domanda e qualunque idea in una satira di cui non esistono molti precedenti nella letteratura italiana.
Confesso che lei ha ragione. La satira in Italia non è molto coltivata, per motivi che forse possono ritrovarsi nell’Estetica di Croce, la quale considera la satira come la Cenerentola della letteratura. Qui regna il culto dell’arte e della poesia in senso assoluto. Ognuno, scrivendo, ha per modelli la Divina Commedia, I promessi sposi, I Malavoglia, secondo le proprie intenzioni e ideologie, e nessuno si guarda attorno per capire i lati assurdi, non diciamo ridicoli ma comunque sfrenati della vita che ci circonda. Farlo è mettersi in una posizione di isolamento, ma questo a me non dispiace. Confesso che ci sono altri scrittori in Italia che esercitano la satira, e che forse lei conosce meglio di me. Per esempio Carlo Emilio Gadda, il maggiore di tutti: un uomo che è arrivato a una tale potenza di stile attraverso la filologia, il dolore, l’umanità, la sofferenza e, diciamo, l’osservazione diretta e continua della realtà che lo circonda. Un altro scrittore che esercita la satira in un modo preciso è Piero Chiara. Questo io intendo scrivere satiricamente: conoscere noi stessi. Conoscere che cosa siamo, che cosa vogliamo e, forse, da dove veniamo.
A che cosa, allora, pensa di dovere questa sua diversità dagli altri, o quanto meno dalla grande maggioranza?
Mah, forse al fatto che io non intendevo assolutamente diventare scrittore. Le mie aspirazioni erano molto più modeste e direi diverse. Nella mia giovinezza non avevo idee chiare, anzi ne avevo poche ma confuse: avrei voluto diventare, non so, rilegatore di libri, falegname. Mi attiravano le arti in cui avessi potuto usare le mani e la fantasia. La pittura, per esempio, sarebbe stata uno svago enorme per me; ho anche tentato di farIa, con effetti disastrosi. Mi son trovato poi, a una certa età della mia vita, a dover dipanare queste mie ambizioni e doverle concretare, e mi è stato offerto di fare della critica cinematografica. Da qui, è chiaro che il passo è breve: si comincia con lo scrivere di cinema, poi di teatro, poi si tenta il racconto e si va avanti. lo ho notato che avevo una corda in me, una corda nascosta, che era quella di ridere di me e degli altri.
Lei tuttavia era nato in Abruzzo, in un paese severo, incline piuttosto alla malinconia. Su questa sua corda segreta del saper ridere, che importanza ha avuto andare a vivere a Roma, dove abita da tanto tempo?
Un’importanza catastrofica. Voglio dire che non è facile vivere a Roma: non è facile perché offre un’infinità di divagazioni e di piaceri che ammorbidiscono lo slancio vitale. “La vita” diceva Sainte-Beuve “sarebbe sopportabile se non ci fossero i piaceri.” Qui a Roma la vita, in questo senso, è poco sopportabile, perché non offre altro. Per quanto, Roma ha questo di buono: che non giudica, assolve, e allora chi lavora in questa città si sente un po’ come cane senza collare. Libero, non paga tasse perché non è neanche un cane da guardia, e trova che la vita intorno è talmente tumultuosa, talmente affascinante, talmente piena di umori, talmente bizzarra, che non può non considerarla sotto il punto di vista della satira.
La più profonda vocazione di codesta città è però anche quella di ridere, o di sorridere, di tutto e di tutti. Perché se veramente Roma è immortale in qualcosa, lo è nell’incredulità: in uno scetticismo superiore a qualunque prova. E questo a che cosa si deve, secondo lei?
Credo che si debba al senso della sua eternità, al senso dell’incapacità di possederla fisicamente o, diciamo così, spiritualmente. A questo mistero continuo che c’è nel sottosuolo e nella superficie di Roma, anche. Mi riferisco soprattutto a Fellini, che si interessa di questi problemi; i vari strati che formano questa città, sia nel tempo che nello spazio, portano l’uomo a considerarsi un passeggero in transito, e quindi a volersi divertire su questa faccenda, non potendone in altro modo cogliere la verità.
Dal momento che lei invece intende la satira come ricerca della verità, di una verità non letteraria, ma naturale, viva, mentre il divertimento è sempre fine a se stesso, non ha mai pensato di andare via da Roma, di trapiantarsi in tutt’altro clima?
Sono cinquant’anni che io penso di andarmene e di trapiantarmi in altro clima, e ogni volta che parto da Roma il mio più grande dolore è quello di ritornarci, un dolore che dura il tempo esatto del trasporto, sia aereo che in treno. Una volta arrivato qui, le abitudini, gli amici, il calore irresponsabile, diciamo, di questa città, mi fanno rinviare la decisione di andarmene.
Ecco, appunto: gli amici. Si direbbe che il mondo l’abbia sempre interessato sotto le specie degli altri, del prossimo, piuttosto che delle astrazioni e delle idee.
Il prossimo… è una gran baracca come direbbe un romano: cioè qualche cosa che non si riesce mai ad afferrare. A questa conclusione si arriva dopo molti anni, stando a Roma: vedendo cioè la… mi perdoni la parola, strafottenza con cui il romano accetta e domina la vita. Questo porta a considerare che le idee hanno un valore relativo, e il clima, questo continuo mutare della meteorologia, queste stagioni che non coincidono mai, questo modo continuo di vivere in una ribalta estremamente illuminata, estremamente fragorosa, attutiscono il senso delle idee e ne danno uno più vago, se vogliamo anche più profondo, all’attimo fuggente. Il quale bisogna afferrarlo, perché se non è bello perlomeno è utile.
Non crede però di giudicare il mondo attraverso un prossimo molto particolare? E poi così universale il prossimo italiano o romano?
Ma, appunto, la protesta è proprio in quello che scrivo. lo non posso che esprimere il mio punto di vista su una cosa che conosco bene; mi guarderei bene dall’esprimere il mio punto di vista su un popolo tra il : quale io sia soltanto un passeggero. E quindi ne risulta, da questa nostra conversazione, una cosa che non era ancora chiara a me stesso: che se io sono scrittore satirico è perché abito in una società che offre soltanto questo fianco.
Vede, per me lei ha una specie di fratello, nelle lettere contemporanee: ed è quello che io considero il massimo scrittore vivente, è Saul Bellow. Anche lui è un maestro di satira, di ironia, di umorismo amaro. Ma crede ancora in certe cose: come nella serietà della solitudine, dell’ignoto e della morte. Perché mai anche di queste cose, nelle sue storie, si parla in chiave di satira?
Premetto che la sua definizione fraterna mi commuove e che l’avermi comparato a uno scrittore come Saul Bellow mi lusinga, anche se sono portato a sorriderne un po’. Perché Saul Bellow è un grande scrittore; io mi considero modesto, nei suoi confronti. La mia modestia arriva anche all’invidia, e .devo dirle infatti che uno dei suoi libri, quello che mi è piaciuto di più, Herzog, non l’ho voluto finire. Appunto perché sentivo che era un mio libro, e che se avessi avuto io quell’idea l’avrei scritto: malissimo, ma l’avrei scritto io. Certo Saul Bellow ha su di me il vantaggio che crede ancora alla serietà della solitudine, dell’ignoto e della morte. lo credo alla solitudine, temo l’ignoto e sono terrorizzato dalla morte. Questo forse spiega il mio ripiegare su una soluzione – vogliamo chiamarla di comodo? vogliamo chiamarla di carattere? – che è quella di vedere le cose sotto un aspetto, non allegro, ma comunque intriso di un certo divertimento. Io non ignoro i problemi che pongono la solitudine, l’ignoto e la morte: cerco di rinviarli.
Bellow prende sul serio anche altre cose, però. Nel suo libro più recente, Il pianeta di Mr Sammler, per esempio anche la scienza: ossia la parte di fatalità forse cieca, forse dissennata, ma comunque grandiosa, che essa va prendendo per tutti noi. Si ha invece l’impressione che per lei la scienza sia strettamente apparentata con gli illusionismi da baraccone, con la cartapesta, la truffa…
A lungo andare, nei tempi lunghi, diciamo così, la serietà con cui Bellow tratta la scienza non può arrivare che a una conclusione, quella a cui io sono arrivato trattando la scienza da cartapesta e da fenomeno da baraccone. Noi oggi ci sentiamo stretti, diciamo così: la spirale in cui ci ha immesso la scienza, in cui ci stringe, in cui ci soffoca, è già abbastanza un fenomeno da baraccone. Non siamo più quelli che eravamo, non dico dieci anni fa, ma cinque anni fa; perché in questi ultimi anni la scienza ci ha posto delle condizioni di vita che sono inaccettabili. Tanto è vero che tutta la protesta che oggi va sotto il nome di ecologica non è che una protesta contro la scienza. Si dice che la tecnologia troverà il modo di eliminare i danni prodotti dalla tecnologia, ma io non ci credo. Noi abbiamo commesso l’errore di credere che le macchine un giorno ci avrebbero superato per la loro intelligenza. No, le macchine ci supereranno per il loro numero, per la loro quantità, e perché l’uomo non potrà che continuare a fare sempre più macchine.
Ad ogni modo una cosa è la tecnica e una cosa è la scienza. Non crede proprio che questa possa aiutarci a capire chi siamo e da dove veniamo, prima ancora che “dove andiamo”?
Guardi, le risponderò con una sola frase: la malattia professionale degli scienziati, come per i minatori è la silicosi, è la fede. Cioè, gli scienziati arrivano a delle conclusioni elementari, antiche come il mondo, attraverso un’esperienza che è dolorosa per l’umanità, mi creda. Quando si sarà scoperto tutto, quando avremo veramente deciso tutto, dovremo ritornare alla conclusione che è l’amore ciò che muove il mondo e le altre stelle.
Per me non sarebbe poco arrivare a confermare questo per la via della scienza, della ragione. Ad ogni modo, ecco che c’è dunque qualcosa in cui credere, qualcosa da capire anche per lei…
C’è tutto da comprendere, più che da capire. E tutto da risolvere, ognuno nel suo intimo e secondo le proprie preferenze. lo ho già scelto quali sono le mie: sono la solitudine, lo scrivere e, se vogliamo, la noia.
Però la noia è una specie di malattia, e pensando all’effetto che producono su di me i suoi libri dovrei aggiungere una malattia contagiosa. I suoi libri sono per me una pericolosa delizia: per qualche tempo, mi fanno vivere nel sospetto che anche tutte le cose in cui credo, anche tutte le mie capacità di entusiasmo, siano degne di sbadigli e di riso. Che effetto fanno su di lei, i suoi libri? Può davvero dire della sua ironia quel che diceva Saba della sua poesia, “E d’ogni male mi guarisce un bel verso”?
Saba ha espresso quella che è la funzione dello scrivere, della letteratura oggi: una funzione in gran parte terapeutica. Sì, scrivere o fare versi può guarire. Quanto alla mia ironia, o se vogliamo dire alla mia satira, credo che mi liberi di tutto quello che mi dà fastidio, che mi opprime, che mi offende, che mi mette a disagio nella società; e in questo senso va considerata appunto terapeutica. Una cosa che forse a lei non interessa, ma che interessa me, è che io, quando scrivo una cosa, poi dimentico la ragione che me l’ha fatta scrivere, cioè la elimino dalla mia esistenza e penso a qualche cosa d’altro. In questo senso, lo scrivere è effettivamente per me un bisogno organico. Eliminerei moltissimo dalla mia vita la necessità di lavorare, perché io sono tendenzialmente pigro, se questo non fosse un modo di sopravvivere.
Però spesso il metodo della sua satira consiste nel formulare in modo per così dire definitivo un’idea da distruggere: in modo tale, cioè, che da quel momento quell’idea non possa più venir presa sul serio da nessuno. Un antropologo canadese, per esemPio, di nome McLuhan, dedica tutta la sua vita a studiare gli influssi dei mezzi di comunicazione, di informazione, sulla società, e arriva a sintetizzare tutto in un aforisma: “Il mezzo è il messaggio”, vale a dire la televisione o la radio sono già di per se stesse dei messaggi, qualunque cosa ci dicano. Ed ecco come lei lo sistema: “Se abbiamo ben capito, professore, è inutile aprire le lettere, è il postino che bisogna leggere”. A questo metodo, usato con il suo talento, non si vede che cosa potrebbe resistere. Ma non le succede mai di sentirsi in cattiva coscienza, nell’usarlo?
Sono colpi bassi, lei dice, colpi non ammessi nelle regole del gioco. Ma lo scrittore satirico queste regole non deve conoscerle, cioè deve affidarsi alle possibilità che gli si offrono, che sono fuori dal gioco, fuori dalla regola: deve colpire come può e con i mezzi che ha. La scrittura satirica non è uno sport, cioè non chiede eleganza e rispetto delle leggi. Chiede soltanto la forza di una sopraffazione, e a questo punto tutti i mezzi sono buoni. Se io mi servo di questo capovolgimento dell’idea altrui, è perché molte volte mi viene offerto proprio da chi queste idee pratica. Noi viviamo in un mare di idee, oggi, e lei sa benissimo che oggi ogni cretino è pieno di idee. Questo io l’ho anche scritto: bisogna cioè guardarsi da quelli che formulano nuove idee continuamente. Se io queste idee le combatto, non posso combatterle con cortesia, ma con violenza. Quindi mi permetta di dirle che sotto questo punto la mia coscienza è salva: ammesso che io abbia una coscienza, o che gli scrittori satirici abbiano una coscienza.
Ma allora vediamo di definire un po’ meglio che rapporto. c’è tra la sua satira e la noia. Che cos’è la noia, insomma; Leopardi, che anche lui se ne intendeva, ha scritto molte cose su questo argomento. Per esempio ha scritto che “Quando l’uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia”, Lei è d’accordo con lui?
Sono d’accordo perché non si può non essere d’accordo con Leopardi. Ma io sono arrivato a un’altra definizione della noia: la noia è la verità allo stato puro. Cioè noi arriviamo a capire la verità quando arriviamo nel fondo della noia. Questo succede spesso. Leggevo nel diario di Kafka queste parole che mi hanno molto colpito: “Mi sono annoiato tanto, stasera, che sono andato nel bagno tre volte a lavarmi le mani”. Ora, se Kafka si annoiava, io modestamente debbo annoiarmi: forse molto di più di lui. Goethe diceva invece che se le scimmie potessero annoiarsi, forse diventerebbero uomini. Quindi io vedo nella noia un lato divino dell’uomo, cioè quello che lo accosta di più all’Ente creatore dell’universo (di cui io immagino oggi la noia per aver fatto questo gran capolavoro), e vedo nella noia una difesa contro l’ondata che questo secolo ci getta addosso di attivismo, di pensiero, di ideologie, di incitamento, di vitalismo. Ecco, io sono contro il vitalismo, e sono contro il vitalismo perché si traduce in estetismo, si traduce in manierismo e si traduce, in fondo, in malinconia. Io non sono malinconico, preferisco annoiarmi. Un rimedio alla noia? Ma certo che c’è, questo rimedio: io credo che sia il lavoro. Uno scrittore che io ammiro moltissimo e dal quale sono stato molte volte incitato a lavorare, Jules Renard, diceva: “La vita è corta, ma la noia l’allunga”.
Non crede che la noia predisponga alla complicità con chi ce ne fa uscire, in qualunque modo questi riesca ancora a sorprender ci, a rompere l’uniformità? Non crede che trovare ancora di che divertirsi all’assurdità del prossimo (divertirsi qui è solo il contrario di annoiarsi) comporti nonostante tutto una certa simpatia per questa assurdità?
Non si tratta di simpatia, ma di constatazione. Vorrei riferirmi a quel filosofo greco (credo fosse proprio Epitteto, ma forse i miei ricordi mi ingannano), che era schiavo e sottoposto a bastonature su una gamba. Finì col dire: “Attenzione che me la rompete”, ma senza mettere in questa frase più di una constatazione; né dolore, né angoscia, né timore di perdere la gamba. In fondo, lo scrittore che sfrutta la noia non fa che richiamarsi a questo “Attenzione, voi state rompendomi la gamba se seguitate cosÌ”. Tutto quello che ci circonda, il piacere della vita, tradotto in noia diventa filosofia: cioè diventa possibilità di capido, diventa anche possibilità di rifiutarlo. Il lavoro, diciamo così, di trasformazione, è quello che io faccio, e soltanto in questo modo può essere inteso quello che io scrivo. Quanto alla complicità a cui lei accennava prima, è chiaro che questa complicità esiste. Ma è una complicità. strategica, non politica: una complicità di guerra che bisogna accettare come si accettano certe ineluttabilità, per poter meglio colpire. Non è una complicità dell’animo, ma soltanto della mente.
Guardi, usciamo dall’astratto. Facciamo un esempio, quello che lei ha scritto sul modo di viaggiare degli italiani, cht dal Polo Nord alle savane non riescono a prendere sul serio nulla e continuano a essere quello che sono a casa. Lei scrive testualmente: “La savana, la giungla, i grandi spazi dell’ Africa: due italiani bastano a corromperli. ‘Dottore’, ‘Ragioniere!’. Non rinunziano ai loro titoli, guardano i grandi spazi, vi si perdono, li percorrono senza convinzionr. dubbiosamente. “Con lei in Africa non ci vengo più” eccetera. Quando due italiani si incontrano per caso all’estero la loro prima reazione è un gran ridere: ‘Che fai qui?’, ‘E tu? Infatti si suppone che se sono fuori casa è per motivi essenzialmente comici: il lavoro, la noia, una curiosità piena di riserve, le donne, i piaceri eccetera”. Può negare di aver fatto questa osservazione divertita con un fondo di simpatia?
Non è un fondo di simpatia, ma di constatazione disarmata. Noi sappiamo bene che l’italiano, forse per una sua posizione geografica che l’ha messo nel mezzo del Mediterraneo, un mare, un lago caldo da cui è sorta una civiltà millenaria, si sente un po’ figlio unico, cioè si sente inimitabile. Tutto il resto del mondo è strano. è assurdo che sia stato fatto, e lo spinge sempre a ridere. Quando l’italiano va al Polo Nord trova che c’è troppo ghiaccio, quando va in Africa trova che c’è troppa sabbia. Non si potrebbe rimediare in qualche modo? NO!! si potrebbe togliere un po’ di sabbia? Non si potrebbe togliere un po’ di ghiaccio? E trova che i neri sono troppo neri e che i cinesi sono troppo cinesi. Questo lo porta a considerare il resto del mondo come provvisorio e in fondo un po’ ridicolo. Pensiamo un po’ all’italiano che va all’estero, che si controlla continuamente, che ci va vestito bene, ha paura di fare brutte figure, passa la vita a controllarsi per questo sentimento di inesatta superiorità. Questo lo porta anche a non vedere mai il paese in cui vive. Ha notato che gli scrittori, diciamo “italiani” tra virgolette, che hanno più capito l’Italia sono stranieri, per esempio inglesi? Il più bel romanzo italiano è Monteriano, scritto da Forster nel 1910. Non parliamo di Old Calabria e di South Wind, scritti da Norman Douglas. Non parliamo di Foglie secche di Huxley, non parliamo di Lawrence. Loro hanno visto l’Italia per quello che è: un insieme di contraddizioni storiche, psicologiche, che vengono dalla mitologia e che fanno di questo popolo un unicum certe volte ridicolo, appunto, per le sue contaminazioni. Dire che l’italiano si sente sempre a casa è inesatto; si sente fuori casa anche a casa sua. Trova che tutto intorno a lui è inferiore a quello che lui pensa di se stesso e di come dovrebbe essere il suo ambiente. Tutto questo non si può guardare senza simpatia, perché è il frutto di uno stato d’animo che forma in fondo l’ambivalenza dello straniero verso l’italiano e l’Italia: questo desiderio di amarlo e nello stesso tempo di detestarlo. E un enfant gaté, un figlio unico: e come tale va forse redarguito, picchiato, ma in un certo senso anche amato.
Ad ogni modo, malgrado lei scriva, come ha fatto recentemente, di essere fra quelli che “non hanno nulla da dire”, stasera ci ha lasciato intendere che in qualcosa crede, e piuttosto dolorosamente. D’altronde non si spiegherebbe, se no, perché in una nostra intervista di due o tre anni fa lei abbia detto che andare a prendere la luna, un secondo mondo, non avrebbe alleggerito questo del suo peso di bari e di mascalzoni. Un’invettiva presuppone sempre il suo contrario, presuppone sempre un termine di paragone, non le pare?
Vorrei risponderle con una frase di Cardarelli, un poeta che io ho molto amato e conosciuto: “Io sono un cinico che ha fede in quel che fa”. Se c’è una fede in me è in quel che faccio: cioè in quel che credo e in quel che vorrei fossero le cose. Ma queste cose non dipendono da me. Il mio cruccio è nel vedere una società che si va degradando, deteriorando. Per migliorare, dicono alcuni; io penso, per perdere anche quel poco di umano che le resta. E’ un atteggiamento forse moralistico, forse troppo facile quello che io sto prendendo in questo momento, ma risponde esattamente a quello che penso. Se mi sono spiegato in una maniera violenta, con la parola che lei cita, è perché io penso che effettivamente la società sia minata da gente che non crede. La maggiore mancanza in tutti i campi, oggi, può essere superata soltanto dalla mancanza della fede, che io non voglio identificare con una religione, né con una chiesa; voglio identificare con la fede nel destino dell’uomo, che mi sembra oggi sia molto, molto bassa.
E questo perché, secondo lei?
Noi oggi siamo in contatto col mondo attraverso i mass-media: i giornali principalmente, la radio, la televisione. La maggior parte delle notizie che il mondo ci offre sono pessime notizie: non abbastanza confortate da quello che gruppi di uomini, società, nazioni, fanno perché questa fede non perisca del tutto. Sentiamo che qualche cosa si va lacerando nel tessuto divino dell’umano. Qualcosa si va perdendo, qualcosa si va sciupando irrimediabilmente per l’adorazione del vitello d’oro, per l’adorazione del successo, per l’adorazione di quello che noi crediamo di essere, cioè animali sessuali; mentre non siamo animali sessuali, siamo animali pensanti, ragionanti. Tutta la mia protesta satirica, in fondo ha questa filigrana; e io vorrei che lei la vedesse mettendola contro luce, verso la finestra.
Comincio a intravvederla, in realtà, e non so dirle con quanta sorpresa. Ma allora, per esempio: nessuno sembra abbia dato gran che peso, finora, all’importanza che hanno nelle sue storie gli animali. Da quei coccodrilli a caccia di lavandaie del suo primo libro alle scimmie massacratrici dell’ultimo, sembrano degli umoristi felici e vendicatori. Che cosa rappresentano? Solo una nemesi o il richiamo di un paradiso perduto?
lo amo gli animali. Amo gli animali perché credono in noi. Ci temono, anche, e qualche volta si mettono al nostro servizio, esprimendo una fedeltà che noi non siamo capaci più di esprimere. Il coccodrillo, per me, quello che lei cita, è il diavolo; le scimmie massacratrici sono gli uomini. Queste sono due allegorie, in realtà io amo gli animali per quello che sono, al di fuori di ogni allegoria. Amo i cani, i gatti, riesco ad amare persino i polli. Non parliamo degli uccellini, che in Italia vengono considerati tiro al bersaglio (e vorrei che il santo patrono degli italiani, San Francesco, dicesse qualcosa di più su questo argomento, si facesse sentire in un altro modo). Detestare l’animale, opprimerlo, ferirlo, offenderlo, è una cosa che mi dà sempre un grande dolore. Io ho dei contatti, ho avuto dei contatti persino sentimentali con degli animali. Con una gatta di cui potrei scrivere un racconto straordinario, perché mi portava ogni volta a vedere i suoi piccoli: io abitavo in un pianterreno e ogni volta che questa gatta sgravava mi portava a vedere i suoi piccoli per averne un’approvazione. Ho avuto dei contatti da pari a pari con cani, cani abbandonati che venivano da me a Fregene alla fine dell’autunno, adesso specialmente, a nutrirsi, e che mi portavano dei regali – delle scarpe, una scopa rotta, una scatola – perché volevano sdebitarsi in qualche modo del mio aiuto. Ho avuto dei contatti con un gabbiano ferito che capiva quello che gli dicevo e voleva essere apprezzato da me non perché era un gabbiano, ma perché era un essere pensante. Io credo che noi abbiamo troppo sottovalutato gli animali, e infatti il film che più mi è piaciuto in questi ultimi anni (sembra strano che io, uomo di cinema, parli di questo film) è Gli uccelli di Hitchcock, in cui si prevede una ribellione degli uccelli contro l’uomo: film che mi ha non solo angosciato, ma che mi ha messo dalla parte degli uccelli. Perché questa umanità che si considera figlia di Dio, divina e portata a dominare la terra, in realtà la sta sconvolgendo e non tiene conto degli altri ospiti che sono su questo pianeta, o ne tiene conto soltanto per farsene delle pellicce, per utilizzarli come cibo, per utilizzarli nel lavoro. E la più grossa impresa di schiavitù della storia.
Devo insomma pensare che lei ce l’abbia con ciò da cui gli animali sono liberi di per se stessi, e cioè con la cultura nei senso più ampio del termine: con la costrizione a essere tutti in un certo modo, a farsi certe domande o a non farsele, a ingannarsi a vicenda secondo regole obbligate. Ma una via di scampo lei l’ha indicata nel racconto in cui una donna si trasforma in un animale, appunto: in un cane. Meno metaforicamente, è aperta a tutti questa via di scampo? E come si fa per trasformarsi in cane?
Questa via di scampo, come lei la chiama, è realmente aperta a tutti ed è chiara l’indicazione che io suggerivo. La via non può essere che l’amore, ma non l’amore canino, cinico: l’amore assoluto, totale. L’amore che comincia da sé e va verso gli altri, che comprende i giorni, comprende il tempo che abbiamo vissuto, comprende gli amici che ci hanno abbandonato. che sono morti, comprende le persone che abbiamo conosciuto, comprende anche le persone che non conosciamo. Questo è molto difficile da mettere in pratica, vero?, perché si cade in un filantropismo forse di maniera o comunque non adatto alle concezioni più filosofiche, materialistiche dei tempi, ma non vedo altra via di scampo. Non vedo altra via di scampo perché tutte le altre suggerite dalle contingenze, suggerite dal nostro tono di vita ormai degradato, non danno un’altra indicazione. La donna che si trasforma in cane da lei ricordata è una speranza che per salvare qualche cosa bisogna cominciare a rinunciare a quello che noi siamo, cioè alla nostra “cultura” tra virgolette: perché la vera cultura è un’altra, è quello che sanno gli analfabeti in un certo senso, cioè come vivere nell’ambiente, come non offenderlo, come rispettare gli altri. Questa è cultura; e parlando di amore, non vorrei che lei equivocasse. L’amore qui è inteso come un fatto estremamente ampio, estremamente divino: è l’amore che comprende soprattutto la possibilità che noi un giorno non possiamo più esercitarlo, perché noi un giorno ce ne andremo e dobbiamo lasciare di noi un ricordo che sia perlomeno decente.
Questa sera mi sembra, Flaiano, che lei si sia aperto come forse non ha fatto mai, abbia rivelato un’angoscia e soprattutto una fede dietro il suo umorismo. Ma questo mi fa nascere il sospetto, in conclusione, che lei in fondo, sia un uomo di un’altra epoca, se non di un’altra èra. E un sospetto infondato?
E’ un sospetto lecito. Noi non sappiamo chi siamo, noi siamo dei passeggeri senza bagagli, nasciamo soli e moriamo soli. Una volta una scrittrice mi citò in un suo libro, e nella traduzione inglese lo scrittore inglese tradusse il mio nome in Ennius Flaianus, credendo che questo Ennio Flaiano fosse uno scrittore latino. Dopo qualche mese ci incontrammo in una trattoria di Roma, ci presentammo e lui rimase molto male, naturalmente, perché non pensava che questo antico scrittore vivesse ancora. Tuttavia, fummo d’accordo che certi caratteri della mia persona, un certo modo di vivere, gli davano ragione. Io forse non ero di quest’epoca, non sono di quest’epoca. Forse appartengo a un altro mondo: io mi sento più in armonia quando leggo Giovenale, Marziale, Catullo. E probabile che io sia un antico romano che sta qui ancora, dimenticato dalla storia, a scrivere cose che altri hanno scritto molto meglio di me: cioè, ripeto, Catullo, Marziale, Giovenale.